Molti lo conoscono, in pochi lo hanno letto: non è un semplice classico di filosofia politica. Di più, la chiave giusta per aprire quella serratura arrugginita che è la Storia del Novecento, troppo spesso viziata dalle sue stesse ideologie nella narrazione degli storici. Il punto di vista della Arendt non è certo neutrale, tuttavia sa prendere le distanze da ogni posizione, scontentare tutti, nel ripercorrere la discesa agli inferi delle visioni totalitarie e smascherarne la genesi, non per ridimensionarne la gravità, ma per disinnescare, almeno per il futuro, quel meccanismo, inconsapevole, di funzionamento, che le rende così accessibili e pericolose.

È di scena il totalitarismo. Talmente schiacciante, nelle sue pretese di dominio assoluto, da sopraffare persino tutte le precedenti categorie di giudizio. Il pensiero dovrà elaborarne di nuove, staccarsi da quei circuiti concettuali che non hanno saputo frenarlo nel nascere, ma l’hanno accolto, tanto astratti e flessibili, come certa filosofia idealistica tipicamente tedesca, nei suoi obsoleti meccanismi. La nascita, la rigenerazione, il nuovo, è l’aria che tira sfogliando le pagine dell’opera. Questa l’intenzione implicita che la lettura ispira. Necessità e volontà di cambiamento. Non è un libro che vuole troppo a lungo soffermarsi sull’errore: certo, guarda per capire. Ma soprattutto, capisce per voltare pagina, evitare che l’ingranaggio guasto si riproponga ancora, e la teoria della rotella si sa, è una teoria truffa.  Gli uomini non sono rotelle, e per quanto il sistema possa farli sentire nella posizione di deresponsabilizzarsi, mantengono integra, ad ogni livello di responsabilità, la qualità di soggetto morale.  Pubblicato nel 1951, benché diffusosi in Italia molto dopo, questo libro sembrava riproporre le domande di tutti, nel secondo dopo guerra, dando però risposte del tutto nuove. È il libro di un’apolide, dirà lei. Il libro di una donna senza patria e senza etichette che sarà giudicata per le sue idee da ogni parte politica, persino dalla sua. Un libro troppo filosofico per essere storico. Troppo storico per piacere ai filosofi, eppure nuovo, sui generis, nell’unire le due prospettive: storica e filosofica. Nel creare un matrimonio tra fonti e prospettiva critica, e fuggire ogni metodica abusata, per acquistare nuovi occhi su vecchi fatti. È il libro in cui per eccellenza analizza e cataloga, crea modelli, confronta e scardina. Ma su di ogni indagine storica o filosofica che sia, grava, come un macigno sul cuore, la domanda etica: come è potuto accadere? A questo risponde, a ben vedere, “Le origini del Totalitarismo”, a questo tenta di rispondere, ma forse, come la soluzione di Wittgenstein, anche quella della Arendt resta l’insormontabile silenzio dopo una raffica di logiche e ineccepibili e combattive parole alla ricerca di un senso per l’insensatezza. Alla scoperta di un super senso, truffa anche questo, ma tanto illuminante per comprendere, da lontano, le movenze di un sistema paralizzante delle libertà che forse, prima della pubblicazione di questa ricerca, restava un po’ più misterioso per la mente umana, un po’ meno comprensibile nel suo essere e nel suo fare. Questo libro è un meraviglioso cortocircuito dell’essere umano, che in tutta la sua integrità, morale, civile, indaga un sistema politico disumanizzante, e vuole capirlo, e forse non può del tutto, nella misura in cui il sistema spoglia l’uomo del proprio essere, non può, nella misura in cui chiede all’umanità la rinuncia alla scintilla divina che è in noi, che nulla ha a che vedere con l’Assoluto hegeliano o il Creatore cristiano; la scintilla divina di ogni filosofo, la luce del pensiero, e dell’essere morale che il Novecento politico, con i suoi crimini contro l’umanità, fortemente e sistematicamente, ha tentato di spegnere.   

Le origini del Totalitarismo, Hannah Arendt.

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