Cedere all’irrazionalità è già una maledizione. Lo esprimeva bene Umberto Eco quando, usando a introduzione del romanzo “Il pendolo di Foucault” una citazione di Raymond Smullyan, scriveva: “Essere superstiziosi porta sfortuna”.
Dal sonno della Ragione, parafrasando Goya, non mancano di manifestarsi mostri, alcuni di questi sono però solo spettri delle nostre irrazionali fobie, scenari tetri che la nostra paura rende verosimili. Ma frequentare quei luoghi, annunciare presagi, scongiurare nefasti sviluppi di innocui gesti con rituali scaramantici, non è forse un modo, efficace per molti, di controllare l’atavica ansia dell’ignoto?
In età ellenistica Epicuro ci raccomandava di usare la razionalità per sconfiggere la paura. Attraverso la comprensione si domava così l’irrazionalità del tremore istintivo, e svanivano come per magia filosofica rimuginare estenuanti e anticipazioni inopportune. Cosa succede però quando è l’irrazionale ad imporsi? Quando a un oggetto, a un animale, a una situazione o a un gesto la fantasia popolare associa il più drammatico degli eventi, come la morte, o il più incomprensibile, come la sfortuna? Succede che nascono le superstizioni, con le rispettive scaramanzie, che se da una parte ci terrorizzano, dall’altro ci rassicurano poiché propongono un antidoto a cui ricorrere per evitare il peggio. Piccole panacee tascabili che odorano di irrazionale, ma che riescono più della razionalità, in questa epoca di caos e illogicità, a sedare gli animi più inquieti. È così che si diventa superstiziosi. È così che si inizia a tenere in tasca quel corno rosso che ci ha regalato il caro amico e lo si accarezza per attrarre la fortuna, ma soprattutto scongiurare il peggio. Perché il superstizioso, più che attrarre il bene, vuole evitare la catastrofe. Ma di fronte a una stella cadente o a un arcobaleno non può fare a meno di sorridere ed esprimere un desiderio che, in cuor suo sa, si realizzerà di certo. Quale sia il motivo, non lo sa. Ma non è nascosta forse lì la magia della vita, il misterioso affidarsi a una credenza che lascia fuori gioco lo strumento razionale? Certo è che per non incontrare la morte basta attenersi a qualche piccola regola, e il gioco è fatto. Non mangiare con altri dodici amici a tavola, se non si vuole replicare quell’ultima famosa cena cristiana, non appoggiare il proprio cappello al letto, grossolana distrazione che costerebbe la vita, come puntualmente accadeva ai moribondi con un prete o un medico in visita che compivano lo stesso gesto. Mai appoggiarsi a un albero di mirto, poiché verosimilmente attira fulmini, non proprio benefici per la propria salute, e qui sembreremmo cadere nella trappola della razionalità, ma basta tornare all’etimo e chiunque capirebbe che l’evocazione della morte è immediata, come accade nel numero 17, tanto temuto poiché scritto in caratteri romani rimanda all’anagramma VIXI. Mai frequentare gatti neri, portatori di immani sfortune, se poi proprio vogliamo arginare la cosa e tenerne uno in casa possiamo sempre trasferirci in Egitto dove non circolano pettegolezzi sulla reputazione dei felini che danno anzi fattezze alla Dea Bastet e per questo sono venerati. Paese che vai superstizioni che trovi, diremmo, spesso diametralmente opposte e contrastanti, di regione in regione, tra loro, ma questo è il bello dell’irrazionalità, non ha bisogno di concordare con nulla, perché indisciplinata non accetta regole. La troviamo ancora, la morte, in fondo a un letto da rifare, quando si è in tre, o nell’ultima goccia della terza bottiglia di vino, ma possiamo evitarla se proprio l’abbiamo bevuta, aprendone una quarta, di bottiglia, e goliardicamente far festa alle sue spalle. Non fa più troppa paura una morte che possiamo prendere in giro, anche quando canta per chiamarci attraverso una civetta che vola sui tetti o ulula con un cane nella notte. Di certo sappiamo che il venerdì se ne va in giro più degli altri giorni, così è meglio restare in casa, evitare di sposarsi, partire o dedicarsi all’arte.
Sembra dunque che il presagio di morte si basi sempre su una associazione mentale non gestita dalla logica, ma dalla credenza, dall’esperienza avvenuta, che tutto può fare meno che dettar legge nella scienza. E così di analogia in analogia, di suggestione in evocazione, sbattiamo contro quel muro che Heidegger definiva “La possibilità dell’impossibilità”, ma che a me piace più banalmente chiamare “l’impossibilità di ogni possibilità”, perché il suo pensiero oltre a rimetterci sul sentiero dell’autenticità, come direbbe il filosofo, è in realtà come dico io, il cancello sbarrato su un sacco di orizzonti e sogni, oltre che logicamente impossibile da pensare: è quella situazione in cui la logica va in tilt poiché si confronta con un mistero assoluto che non può capire, e con cui, tornando ad Epicuro, non avrà mai speranza di un incontro chiarificatore, e infatti “Quando lei c’è noi non ci siamo, quando noi ci siamo lei non c’è”. Non la vediamo, non la capiamo, non la conosciamo. Ecco perché se ne inventano tante sul suo conto.
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Mi chiamo Irene e sono il direttore di questo magazine on line, fondato con l’Associazione Culturale “Le Ciliegie”. Nel lontano 2003 mi sono laureata in Filosofia con 110 su 110 e lode, tesi in Bioetica sull’esistenzialismo francese, e proprio come Jean Paul Sartre, mio filosofo del cuore, ho idea che “terminerò la mia vita esattamente come l’ho iniziata: tra i libri”. Sono una giornalista culturale e una docente di Filosofia e Storia: il giornalismo è la mia scusa per scrivere, l’insegnamento la mia palestra. Ma la verità, dietro tutte queste maschere di carne, è che sono una scrittrice, e scorre inchiostro nelle mie vene.