In ufficio è una giornata decisamente inusuale, lenta, di quelle che sembrano non passare mai. Così mi ritrovo a chiacchierare con una collega avendo persino il tempo di notare qualcosa a cui non avevo fatto caso fino a quel momento: mi ricorda qualcuno. È una figura diafana, magra, ha i capelli rossi, lunghi e ricci, un profilo classico che riporta a mondi antichi. Ma sì! Somiglia a Elizabeth Siddal, la tormentata modella preraffaellita. Ci risiamo, la macchina del tempo è partita. La mia collega parla ma io non ascolto più, la mente è lontana, ha già raggiunto un’Inghilterra di metà Ottocento e la soglia dello studio di un pittore. La pioggia batte incessante sui vetri dell’atelier in cui regna uno strano fermento. Alcuni uomini trasportano una grande vasca. L’artista impartisce ordini facendo spostare l’insolito complemento d’arredo più volte in punti differenti. “Cerca la luce giusta” sussurra una voce femminile alle mie spalle “quei poveretti non avranno pace finché non l’avrà trovata” la donna ride sottovoce mentre mi passa accanto per entrare. Intanto l’artista continua a dare disposizioni: “Sì, perfetto, lasciatela pure lì. Liz per favore, avvicinati con il viso alla vasca, voglio controllare la luce. Ferma così. Benissimo. Portate l’acqua e le lampade ad olio, così riempiamo la vasca e facciamo scaldare un po’ l’ambiente intorno! Mia cara, nel frattempo, puoi andare a cambiarti.” La donna è proprio lei, Elizabeth Siddal mentre io sono arrivata dritta dritta all’ l’atelier di John Everett Millais e sulla scena del suo magico “Ophelia”. “Potresti aiutarmi con questi?” mi chiede la donna, con voce lenta, quasi si fosse appena svegliata, indicando alcuni pesanti abiti di scena. Deve avermi scambiata per una domestica o qualcosa del genere ma va bene così “Non ti ho mai vista. Sei nuova? Io sono Elizabeth, ma puoi chiamarmi Liz se preferisci.” Si spoglia e la sua pelle è incredibilmente diafana. Scioglie i lunghi capelli rossi che le ricadono come fiamme lungo la schiena bianca. Ricorda le fate delle illustrazioni. A pensarci bene, tutti i quadri preraffaelliti sembrano muoversi in una natura leggera degna di un libro di favole, prendendo vita in modo così forte e tenero al tempo stesso. Ogni pianta, ogni fiore, ogni petalo, vivrà eternamente in quelle tele. Sembra di sentirne ancora il profumo. La donna continua a raccontare con quella sua voce strana: “Adesso tocca a me. John ha passato mesi a dipingere il ruscello con tutti i suoi fiori, la vegetazione e ogni minimo fremito dell’acqua. Chissà come deve essere morire in posto così bello?” Si interrompe mentre la voce si è fatta malinconica e ancora più roca. Gli occhi lievemente cerchiati. Ha l’aspetto stanco di chi non dorme da giorni o dorme male. Mi saluta con un sorriso ed entra in scena, pronta a immergersi nella vasca e diventare Ophelia. Entra in acqua, supina, i capelli si aprono intorno a lei come la corolla di un fiore, le vesti iniziano a gonfiarsi. Socchiude le palpebre. Dall’acqua emergono solo il viso, le mani dal palmo rivolto verso l’alto, quasi ad accogliere la morte, e lembi di stoffa rigonfia. I fiori, ognuno un simbolo, quello della gioventù espresso dalla rosa fino alla morte nel nero e scarlatto dei papaveri, galleggiano accanto al corpo. Osservo l’artista disegnare freneticamente mentre il viso di Liz si fa sempre più pallido a causa del freddo che inizia a farsi meno sopportabile. Quella posa intaccherà per sempre la sua salute, così come il laudano di cui abuserà fino a morirne. Amore e morte, anima oscura nascosta in un corpo dagli abiti leggeri. Passione, dolori e tradimenti sembrano non appartenere alle donne diafane che appaiono in quelle tele, soprattutto in quelle dipinte dall’artista che sposerà: Dante Gabriel Rossetti di cui fu musa e tormentata compagna. “Vissi d’arte vissi d’amore” cantava Tosca. Mai parole furono più adatte anche per questa donna che fu volto simbolo dei preraffaelliti. La mia collega intanto è tornata al lavoro, ignara del viaggio che quei riccioli color Tiziano mi hanno regalato e di quanto possa essere scuro il cielo sotto cui si schiude anche il più tenero dei fiori.

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