“Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luogo di questa terra.”
Quel campione d’umanità di seicentocinquanta anime, cui Primo Levi racconta, a un certo punto, stipata in quei dodici vagoni, scopre la destinazione di quel viaggio illogico, ed è un nome come un altro, una città senza storia. Oggi nessuno ignora Auschwitz, ma soprattutto l’ombra nera che evoca, la sua penosa eco di sofferenza e ingiustizia, miseria e ferocia, perché quel nome, oggi, è la sigla del passato che non passa, e non deve passare. Il giorno della memoria è una resa dei conti che si ripropone: è la battaglia annuale di chi si schiera dalla parte offesa, che è rimasta senza voce nel suo tempo storico. É pareggiare un torto? É prevenire un nuovo disastro? Cosa significa adesso, quel 27 gennaio che si affaccia e pretende? Quali significati nuovi assume alla luce di una storia che si sviluppa hegelianamente, ma qualche volte si camuffa e ripete? La Shoà è stato un unicum, riteneva Levi, non paragonabile a nessun altro eccidio. Eppure quanti altri genocidi che non le somigliano dovremo essere in grado di bloccare sul nascere nei decenni a venire? Cosa succederà quando le ultime flebili voci, che il lager non ha spento, lasceranno questa terra? Il loro lascito sapiente ci renderà tutti sopravvissuti, con la fiaccola da consegnare in staffetta a chi non ha visto ma crede, oppure è un tale assurdo condensato in coscienze traumatizzate ma forti da farsi esse stesse memoria come nelle più ardite fantasie di “Fahrenheit 451”, libri umani senza i quali non sapremo più leggere il passato, e dotarlo di senso? A censurare la Storia, come nell’immaginifico romanzo di Ray Bradbury, ci pensano già alcuni approcci storiografici, in voga da tempo, volti a ridurre o negare quanto avvenuto. Prospettive legate all’antisemitismo, all’oblio colpevole, alla giustificazione storica del progetto nazista. La giornata della memoria ritorna, e a ogni passo, viene riletta da un presente timoroso di imporsi, che non ha il coraggio di ergersi a giudice del tempo che verrà, e rischia, per restare incolpevole, di perdere il filo col tempo che è stato.
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Mi chiamo Irene e sono il direttore di questo magazine on line, fondato con l’Associazione Culturale “Le Ciliegie”. Nel lontano 2003 mi sono laureata in Filosofia con 110 su 110 e lode, tesi in Bioetica sull’esistenzialismo francese, e proprio come Jean Paul Sartre, mio filosofo del cuore, ho idea che “terminerò la mia vita esattamente come l’ho iniziata: tra i libri”. Sono una giornalista culturale e una docente di Filosofia e Storia: il giornalismo è la mia scusa per scrivere, l’insegnamento la mia palestra. Ma la verità, dietro tutte queste maschere di carne, è che sono una scrittrice, e scorre inchiostro nelle mie vene.