Cosa spinge un uomo a togliere la vita a un altro uomo? Il movente è tra i più urgenti fattori valutati dalla Legge, e solitamente è basato su questioni pratiche o materiali: denaro, passione, vantaggi immediati. L’uomo può uccidere in maniera premeditata, ma il più delle volte finisce comunque per farlo da belva, ferocemente, e con la brama del sangue. E così le coltellate diventano tante, troppe, la crudeltà è sempre oltre il limite della ragionevolezza, un passo più avanti, e proprio in “quell’in più” che si svela la natura animale dietro la maschera umana.  Poi accadono omicidi spiazzanti, che vanno oltre le aspettative e la nostra conoscenza “dell’uomo medio che uccide”.  “Volevo scoprire cosa si prova ad uccidere”, sono queste le parole del diciassettenne accusato di aver tolto la vita, con premeditazione alla quarantaduenne Maria Campai, a Mantova, e di avere occultato il suo cadavere lo scorso 19 settembre. E qui dovremmo fermarci tutti, andare oltre la cronaca, e ragionare sui fallimenti sociali sottesi alla sfacciata sincerità di un’affermazione agghiacciante. C’è un altro delitto che si consuma dentro questo, a guardar bene, la morte di un uomo dentro le mentite spoglie di un ragazzo normale, che la stessa sera del delitto rientra, e cena serenamente con i suoi genitori. È questa l’immagine che trovo più terrificante di tutte: una tranquilla cena in famiglia dopo un atto del genere. Stride un contrasto inaccettabile. Come può accadere che l’ordinario occulti in maniera così perfetta l’assenza di empatia, moralità e sentimento? E come può succedere che noi, appartenenti a una comunità in luogo di intellettuali, parenti, amici, educatori, genitori, non ce ne accorgiamo, tanto da poter rispondere in coro con il padre, all’occorrenza “Era un bravo ragazzo”? Quale sottospecie di curiosità perversa stana, sempre più spesso, l’apatia apparente, di un esercito di giovani senza sogni, pronti, al contrario, ad assassinare il loro futuro?

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