Ormai l’inverno sembra aver rinunciato a fare la sua parte. Una temperatura decisamente più vicina a quella autunnale ci ha accompagnati tutto il tempo mentre i giornali preannunciano un’estate infuocata. Al fresco delle nostre auto, degli uffici e delle case, brandendo colui che diventerà per qualche mese il nostro migliore amico: il telecomando del condizionatore, abbiamo quasi dimenticato “come eravamo”. Già, il fuoco delle estati siciliane, quella calura che ti entra anche nell’anima e ti sfinisce prima ancora di riuscire a farti beneficiare dell’energia regalata dal sole. Quella luce bianca, quell’orizzonte tremolante alla vista e le cicale, voce stessa dell’estate, unico suono del silenzio. Poi scende la notte, le mura di pietra riversano in strada il calore del giorno e non c’è refrigerio tra le lenzuola. Nelle campagne, sotto la luna e tra gli alberi, si riesce a riemergere per un po’ dal torpore. Una lieve frescura diventa sollievo e allora ci si addormenta, pronti a ricominciare un nuovo giorno, provando a difendersi dai morsi di un luglio infuocato. Torna in mente una meravigliosa scena de “Il Gattopardo” in cui la famiglia del Principe di Salina, impolverata e inebetita dalla calura, raggiunge la residenza di campagna per passarvi gran parte della stagione estiva. Al di là della metafora sociale, crinoline, vesti pesanti e giacche, appaiono non più abiti, bensì strumenti di tortura alleati della morsa dell’estate. Eppure, le ville nobiliari nascondono un segreto, un luogo magico dove lo scirocco non può entrare, un connubio perfetto tra natura e ingegneria, eredità di quella dominazione araba e di una cultura che, da sempre, con le sue costruzioni, si è difesa dall’invisibile nemico: lo scirocco. Immaginiamoci in una Sicilia lontana, magari di fine Settecento, in un giorno di luglio, attraversare un profumato giardino di limoni. Il sole è ancora alto e il nostro abbigliamento di certo non aiuta. Il sudore scende dalla nuca lungo la schiena, il cielo è lattiginoso, l’aria pesante. Laggiù, protetta da quella roccia, ci attende la salvezza. Scendiamo piano lungo la piccola scala scavata nella pietra e la temperatura si fa già più fresca. La nostra “stanza dello scirocco” è lì, scavata nella roccia umida per la vena d’acqua che la percorre al di sotto. Un sedile di pietra corre tutto intorno e una piccola cascatella canta su un lato. I bambini sono già corsi a bearsi di quell’acqua ridendo tra gli schizzi ristoratori. Qualcuno ha portato un piccolo strumento musicale e inizia a suonarlo. La vita sembra aver ripreso a scorrere nelle vene, si trova perfino la forza di cantare, prima sottovoce, poi il coro si fa più allegro e sostenuto. Una delle donne riprende il suo piccolo ricamo, trascurato per il troppo caldo, ma qui sotto le dita scorrono allegre sulla tela. In giornate come queste la stanza dello scirocco diventa la più preziosa delle proprietà. Il sole inizia a scendere, le ombre si fanno lunghe tra gli alberi. La temperatura è scesa. Ristorati dalla merenda e dalla frescura della stanza, siamo pronti ad attraversare il giardino e tornare verso casa. C’è una luna enorme questa sera. Lo scirocco, per rispetto verso tanta bellezza, si è allontanato lasciandole la scena per splendere. In questo tempo che va veloce facciamoci una promessa: proviamo a tenere dentro ognuno di noi la nostra personalissima camera dello scirocco per rifugiarci lì e rigenerarci nei momenti in cui l’aria della vita dovesse farsi troppo pesante.

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