La festa della Repubblica che ogni anno festeggiamo il 2 giugno, non ricorda la nascita della Repubblica, proclamata il 10 giugno 1946, cioè quando la Corte di cassazione fu in grado di proclamare i risultati, ossia i 12.717.923 voti favorevoli alla Repubblica in prevalenza non schiacciante, ma ben definita. Ricorda invece il Referendum, indetto per determinare la nuova forma di governo. Ed è bello, a pensarci, che non si celebri il risultato, la neonata Repubblica, avversata e agognata nei decenni precedenti, ma che si ricordi il momento della scelta, l’atto stesso del voto, la decisione, la partecipazione dei cittadini nell’edificare la Storia, dopo tante esclusione e adombramenti dell’era fascista.  Di certo un’altra cosa si celebra, di quel memorabile giorno di cambiamento, o di possibilità di cambiamento. Del giorno in cui con una matita tutto sembrava possibile. L’inclusione delle donne come soggetto politico: la prima volta al voto delle italiane. E se pensiamo questa cosa, se ci concentriamo su questo lato del referendum, allora davvero il 2 giugno ci appare come una festa nella festa, una festa in cui sono invitati davvero tutti, senza esclusione, e in cui le differenze venivano già pensate non come confine ma come straordinaria potenzialità dell’insieme. Già da questo si iniziava a contrastare la logica politica precedente, e sotto questo bel segno, di pari diritti, inclusione, è nata, non la Repubblica, ma la speranza della Repubblica, in quelle cabine elettorali visitate per la prima volta dall’altra metà del cielo, forse la più luminosa di speranza del domani. Mi piace pensare che proprio la matita di quei 13 milioni di donne votanti abbia fatto pendere l’ago della bilancia dalla parte della Repubblica. Non sapremo mai se è così. Ma lasciatemelo pensare, poiché un mondo che accoglie si slancia per sua stessa natura verso il nuovo, e possiede un’energia che gli consente di non restato irretito nelle ingannevoli maglie della rassicurante tradizione.  

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