Cosa rimane di me?
Quella persona che ero certa di essere adesso dov’è?
Pochi eventi hanno spazzato via l’idea che di me avevo oppure sono io che,
resa cieca e sorda,
non riesco più a distinguerne i contorni?
Adesso che sembra essere scesa la lupa a pelo d’anima
Io non so discernere
Ma sento nascere un ironico sorriso per quelle effimere conquiste,
per sentire quelle vecchie certezze su me stessa spazzate via.
C’era arroganza in quei punti fermi? C’era sicurezza di sapere?
In questa nebbia che mi ha invasa affiorano però dei punti saldi
che diventano boe.
E nel contempo qualcosa da proteggere,
da me e da tutto il resto.
È tutto così strano: sentire il mondo che pure sembra lontanissimo. Sorridere al mio interlocutore eppure guardare quella scena
Da lontano.
Non avere più emozioni ed essere travolti da alcune violentissime e indesiderate.
La comprensione altrui è chimera e pretesa insieme.
Arriverà la brezza e prima o poi porterà il sereno. Chi troverò allora?
Chi vedrò in quello specchio?
Scrivo in un giorno d’ottobre, mese eletto alla prevenzione del tumore al seno. Da giorni mi destreggio tra un controllo all’altro in quello che ho imparato chiamarsi follow up. Mi chiedo dal primo giorno di questa mia non invidiabile esperienza se non ci possa essere una parola italiana per definire il caravan serraglio delle visite mediche. Arriviamo con le nostre cartelline colorate in questi luoghi che mai avremmo pensato di frequentare. Alcuni di noi con passo sicuro altri più mesti. La mia è arancione, piena zeppa di notizie su parti di me fin qui sconosciute. Il personale a volte è gentile, a volte scostante, a volte indifferente ma per te non fa alcuna differenza. Nella testa rimbombano ossessive frasi sconnesse fra loro: “devo stare attenta! Non devo dimenticare di dire questo o quello. Devo memorizzare ciò che mi dicono” oppure “che cazzo ci faccio qui! Che succede?! Ma adesso finisce questa agonia? Com’è venuto andrà via!”
Stiamo lì seduti compìti in attesa del nostro turno. Qualcuno scambia due chiacchiere ma a volte è meglio di no, che alcuni ti vomitano addosso tutto il loro male e tu ti senti peggio. Le mascherine ci aiutano a nascondere quella lacrima che proprio non vuole stare al posto suo. “Ma adesso stai bene, dai! Dal viso non si direbbe che hai tutti questi problemi”
E invece ci sono perché si è aperta una porta che non si chiuderà mai più. Perché mi sono ritrovata sul bordo di un precipizio e, se mi andrà di culo, resterò lì in bilico. Oppure cadrò giù, chissà.
Perché vivo col cervello in pappa tutto il giorno, come dentro una bolla: mi parlate ma io non riesco a prestarvi attenzione, non ricordo le cose. Ti passa un tir di sopra e poi ripassa e ripassa per essere certo che non resti nulla di integro, nel corpo e nello spirito.
Il mondo è un rumore lontano. La vita, per come la intendete e la concepivo anch’io, beh… quella non c’è più. Tutto è scandito dalle musichette al telefono in attesa di poter prenotare una visita, da un medico che non ti risponde e non sa cosa sia l’empatia, che prende le ferie inaspettatamente e rimanda controlli vitali, che ti chiama cliente (cliente?), dalle pillole, dall’ansia dell’attesa di un referto, dai salti mortali con quadruplo avvitamento carpiato e chi più ne ha più ne metta, per capire se sei nelle mani giuste o no. Dallo smarrimento di chi ti sta accanto che per proteggersi fa finta di nulla o ti soffoca. Da chi è sparito e da chi invece è diventato il tuo punto di forza.
Ho scelto l’arancione perché mi mette allegria. Perché io sono una persona allegra e le risate non mancano mai quando arriva il mio turno. Persino con le cuffie in quell’orribile cilindro, prima che inizi il rumore a fracassarmi i timpani, son lì che rido con questa giovane ragazza che mi sistema il camice.
No, non ho paura della morte. Nonostante mi siano accadute cose che gli altri neanche in quattro vite, io sento di aver avuto una bella vita. Ricca, piena di amore e di soddisfazioni. Quindi no, non la temo. Temo il dolore fisico, quello sì: quell’aggrapparsi alla speranza che ti trasforma in un fantoccio di pezza tutto rammendato. Ho paura di causare il dolore altrui, di macchiare di grigio le loro vite.
Mentre sono lì, stesa lunga lunga a pancia in giù e la faccia dentro ad un foro la mia attenzione è rapita dalla quantità di polvere sul fondo. Caspita, mi dico, sicuramente avranno igienizzato prima di farmi accomodare.
Poi metto in atto la mia tattica x sopportare i controlli: penso a cose belle in modo ossessivo. Stavolta sto sistemando casa con la mia metà. Mettiamo il tavolo così, il quadro lo appendiamo là. Funziona. Quel rumore assordante è lontano e sento più forte la nostra radio mentre siamo ai fornelli. Chissà cosa fanno gli altri. Forse piangono o hanno un attacco di panico. Forse non provano nulla.
Nella maggior parte dei casi vedo una sorta di muta rassegnazione ad essere sballottati di qua e di là. In alcuni invece c’è rabbia e voglia di prendere a manganellate la malattia.
Io non so. Credo di essere ancora intontita. Guardo la mia cartellina arancione: il suo volume aumenta ed io boh (qua ci sta bene, lasciatemelo dire).
Sento profondamente mie le parole di Chandra Livia Candiani:
non ti chiedo ragioni
è questa la legge di ospitalità,
ti tengo come una piuma
anche quando sei montagna scottante…”.
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Sono Marina, dipingo su porcellana e mi dedico all’insegnamento di quest’arte. Cerco di trasmettere l’amore per il bello e per tutte le forme d’arte, da sempre linfa vitale che alimenta un viaggio nel mio io più profondo. La notte il viaggio si trasforma in parole che corrono veloci: i miei pensieri prendono vita e divengono pensieri di tutti.