Ci sono momenti, nella vita di un uomo, in cui la dimensione del vissuto emerge e soffoca il macrotempo in cui si colloca. Se esiste un tempo di tutti, un clima sociale, un andazzo politico, uno spirito del proprio tempo, che innegabilmente permea il tessuto della nostra vita e accoglie, a sua volta influenzato, tutti gli eventi che poniamo in essere, è però anche innegabile che ci sono periodi in cui ce ne dimentichiamo, e viviamo come se l’orizzonte non contasse, come se lo sfondo fosse una sfumatura impercettibile di colore dietro, da poter cambiare a piacimento come in un avanzato programma di grafica. Non importa quanto gravi, la guerra, il rincaro, la crisi internazionale, li teniamo in sottofondo fino a non sentirli quasi più, ed è il momento delle micro storie, del tempo dilatato, dell’evento, bello o brutto che sia, che ci ingoia spietato fino a renderci burattini senza palco. Questo rapporto tra tempo privato e tempo pubblico, storia individuale e storia di tutti, sembra oggi, come nelle più note epoche di crisi fortemente a rischio. Questo scollamento ci rende ignota la radice delle nostre inquietudini, a volte derivate proprio da una generale incertezza del futuro, una costante precarietà, una sensazione di imminente tragedia. E invece l’individuo deve ricordarsi sempre che è figlio del proprio tempo, e ne eredita i vizi e le virtù, come da un genitore, nostro malgrado, possiamo acquisire un’inclinazione. Bergson, padre dello spiritualismo francese, notava nella sua epoca una divaricazione tra il tempo della vita e quello della scienza, che scorrevano a suo dire con modalità e velocità diverse. Lo stesso potremmo dire oggi del tempo individuale, quello che ci appartiene, e fa da sfondo e base alla nostra esistenza quotidiana, e il tempo collettivo, che ripudiamo spesso, e disconosciamo come un genitore che ci ha abbandonati in fasce. Noto spesso questo voler ripiegare sul proprio mondo, ignorando, e dimenticando quasi, quello più ampio che ci contiene e consente, e nutre le carni, rendendoci, non visto, ciò che realmente siamo. Il nostro tempo è difficile, non è un’epoca d’oro. Lo ripudiamo allora, per salvarci. Sicuro però che siamo migliori di lui? Meno distruttivi, più incisivi? Quando la dimensione del privato ha iniziato a sussistere autonomamente? Quando abbiamo esattamente iniziato a disinteressarci delle catastrofi politiche, culturali, sociali, ecologiche con il finto interesse della polemica attiva, del pensiero positivo, della denigrazione del diverso e delle manifestazioni di dissenso?
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Mi chiamo Irene e sono il direttore di questo magazine on line, fondato con l’Associazione Culturale “Le Ciliegie”. Nel lontano 2003 mi sono laureata in Filosofia con 110 su 110 e lode, tesi in Bioetica sull’esistenzialismo francese, e proprio come Jean Paul Sartre, mio filosofo del cuore, ho idea che “terminerò la mia vita esattamente come l’ho iniziata: tra i libri”. Sono una giornalista culturale e una docente di Filosofia e Storia: il giornalismo è la mia scusa per scrivere, l’insegnamento la mia palestra. Ma la verità, dietro tutte queste maschere di carne, è che sono una scrittrice, e scorre inchiostro nelle mie vene.