Tra il 1941 e il 1944 un imprecisato numero di persone fu deportato ad Auschwitz. Tra queste furono numerosissime le donne ebree che non avrebbero fatto ritorno. Ricostruendo con meticolosa precisione storica, attraverso fonti ufficiali e archivi, interviste di sopravvissute e ricerche incrociate, l’autrice segue il percorso delle donne del primo trasporto e quello delle ebree sopraggiunte al campo con i successivi, intingendo il proprio stile, feroce di denuncia, in una singolare poetica narrativa che si imprime con efficacia e rapidamente nell’immaginazione del lettore.
L’inganno della deportazione, la fiducia delle famiglie slovacche che affidarono le loro figlie minorenni al governo, inconsapevoli del terrificante progetto, e poi, la vita nei campi di lavoro, la lotta per la sopravvivenza, l’inumano che prende forma in un regno spettrale, le strategie di salvezza, l’orrore: tutto questo è consegnato alla carta come un atroce segreto inconfessabile, in una ricostruzione fedele e agghiacciante ricca di aneddoti e dettagli disturbanti per la moralità di chiunque. Le foto d’epoca scattate in periodo precedente consegnano sorrisi, volti e donne, poi associate a numeri e dimenticate, e raccontano il prima, la vita comunitaria, la religione ebraica, il tentativo ostinato di dare continuità alle tradizioni anche durante la parentesi infernale, che per molti sarebbe stato epilogo. Il libro si sofferma sull’infinito tempo della sofferenza, che sembra non concludersi, ma evoca anche il dolore del ritorno: lo strazio di trovare le proprie case rase al suolo, i genitori morti, i fratelli e i figli dispersi, ritornare da un passato innominabile verso un futuro inospitale. Non tace un tempo impazzito, che sembra infinito ma scorre, lasciando la giovinezza di molte nei campi di concentramento, e così le speranze, i sogni, uccisi o agonizzanti. È un romanzo che ricorda la precarietà: del prima, del durante, e del dopo. Prima perché tutta quella vita nei ricordi pareva poi solo un bel sogno fragile, non duraturo, alla luce dei fatti storici, un’ulteriore sofferenza nel tempo infelice; durante poiché bastava un niente alla vita per spezzarsi, interrompere il suo debole corso; e soprattutto dopo poiché si rientrava in un mondo tutto cambiato rischiando le violenze dei soldati alleati, in una paradossale liberazione taciuta dalla Storia. L’autrice donna, dalla parte delle donne, con delicatezza ma efficacia scava al fondo di certe ferite, e le ripropone sanguinanti: racconta la storia dei suoi incontri con le donne protagoniste del libro e poi le rende personaggi pulsanti di vita, non lasciandole mai essere una folla tatuata, una pluralità di disperate, ma sempre singolarità e testimoni brillanti di un passato vergognoso da marchiare a fuoco nella mente, proprio come un tatuaggio, non reificante però questa volta , ma in grado di restituire all’essere umano la dignità del ricordo.
Heather Dune Macadam, Le 999 donne di Auschwitz.
Foto di copertina di Valentina Giuffrida
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Mi chiamo Irene e sono il direttore di questo magazine on line, fondato con l’Associazione Culturale “Le Ciliegie”. Nel lontano 2003 mi sono laureata in Filosofia con 110 su 110 e lode, tesi in Bioetica sull’esistenzialismo francese, e proprio come Jean Paul Sartre, mio filosofo del cuore, ho idea che “terminerò la mia vita esattamente come l’ho iniziata: tra i libri”. Sono una giornalista culturale e una docente di Filosofia e Storia: il giornalismo è la mia scusa per scrivere, l’insegnamento la mia palestra. Ma la verità, dietro tutte queste maschere di carne, è che sono una scrittrice, e scorre inchiostro nelle mie vene.