Quando apriamo la bocca, oltre ad attivare fisicamente i muscoli facciali ed emettere suoni, inviamo a chi ascolta dei significati che chi riceve potrebbe interpretare a modo proprio. Luigi Pirandello, nel suo dramma Sei personaggi in cerca di autore, ce lo spiega tra una battuta e l’altra: le parole hanno un male perché contengono un senso e un valore per chi le pronuncia e “quasi” sempre un altro per chi le ascolta. Questa è la ragione per cui crediamo di capirci, ma non ci capiamo mai: i soggetti della comunicazione hanno mondi diversi dentro di loro. Il grande Umberto Eco ne ha fatto addirittura il titolo del proprio testo, volendo sottolineare che non si può mai dire esattamente la stessa cosa, seppure ci si impegni, quando per esempio si convertano concetti in una lingua diversa da quella di partenza.
Errori (o orrori?) di comunicazione, volontari o meno, si generano tramite l’uso della Parola. Se è un docente a scrivere “respinto” (o più correttamente non ammesso) in pagella, il suo senso e valore di quella parola sarà: alunno inadatto ad affrontare l’anno scolastico successivo e bisognoso di maturazione. Agli occhi dell’alunno il punto di vista sarà ben diverso: mi sono giocato la vacanza tanto attesa o, al massimo, ho deluso la mia famiglia. Per quanto si supponga che il messaggio sia chiaro, una volta veicolato ha come trasformato il suo ruolo, perso per strada il suo senso originale. Con un grado di severità e autorevolezza ben più definita, la stessa parola respinto può essere il contenuto di un altro tipo di messaggio: chi invia il messaggio è la Questura e chi riceve è un migrante in attesa di protezione internazionale. Il respingimento è un provvedimento applicato agli stranieri che abbiano fatto richiesta di asilo presso uno Stato e ricevuto poi risposta negativa. Non è quindi loro riconosciuta la condizione di perseguitati né per motivi di razza, né di sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali. Il mondo che sta dietro a quel migrante si può provare a immaginare, e da qui fare ipotesi sul suo senso di quella parola: ho viaggiato a piedi rischiando la mia esistenza e non ho meritato di essere accolto, questa rimane per me una terra straniera, non è il mio approdo ma il punto di una nuova partenza, di un percorso a ritroso.
E allora la conclusione è che sarebbe meglio chiudere la bocca piuttosto che aprirla e generare incrinature? No, è un invito alla riflessione: a tendere l’orecchio, a mettersi nei panni di chi riceve. Un’esortazione a prendersi il tempo che ci vuole per ascoltare, per provare a percepire il mondo dietro a una parola. Non solo a una parola proferita, ma a una parola ricevuta.
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Sono Iolanda, giovane insegnante di Lingue straniere, traduttrice ed esterofila. Ho studiato a Catania e poi a Roma, passando per Madrid. Ci ho messo poco a capire che la mia vita sarebbe girata intorno al mondo della formazione dei giovani. Vorrei che tutti loro imparassero ad amare le culture straniere, oltre che le lingue. Perché gli idiomi sono strumenti che, allo stesso tempo, rivelano integrazione e tutelano identità.