Una ragazzina scalza corre tra le vie del suo villaggio, con le sue trecce bionde scandisce un tempo che sta per scadere: non ha ancora passato, ma è sul baratro di un futuro complicato, che un giorno dovrà raccontare. Lo farà con questo libro, e con molti altri, e nelle scuole, come testimone di un inferno attraversato e vinto, che però ne ha inghiottiti molti come lei, un inferno deciso dalla Germania nazista.
Alla base c’è l’assunto di ogni romanzo memorialista: non possiamo dimenticare. Questo patto con la memoria è più forte di ogni altro tema, e viene rinnovato due volte, perché Edith Bruck in due casi sfiora un vuoto dell’Essere terrificante: all’impatto con la potenza devastatrice della Storia, nei campi di sterminio, e poi, avanzando l’età, dentro la morsa di un tempo della vita che stringe, e ti toglie pian piano il fiato per raccontarla. Poche pagine, in fondo, per dire molto. Troppo. Più di quanto una esistenza sola possa sopportare. Una tranquilla vita familiare minacciata sottilmente dal razzismo, e poi sconvolta dalla deportazione, giunta improvvisa alle porte dell’uscio alla vigilia del pane fatto in casa, e dunque perduto per sempre, come tutte le gioie familiari, e rimasto marchiato nel titolo come eterno simbolo della mancanza del buono della vita precedente. Il ricordo è il motore della narrazione che scorre veloce al comando di lui, fluttuante, da un periodo all’altro dell’esistenza, senza soffermarsi su nulla ma toccando tutto, con mani d’artigli: provocando dolore in chi legge. Il libro non informa e basta: comunica. Emozioni in primo luogo. Spesso non belle, non facili, che sono dolorose persino da rievocare. Il sollievo dell’abbandonare il treno scellerato, l’importanza di mantenersi nella fila giusta di fronte ai nazisti che “abbaiano” comandi in lingue incomprensibili; il cibo immangiabile che diventa, di colpo, squisito. Il terrore frequente, gli inganni, la cattiveria tra deportati, il pellegrinaggio triste tra campi e campi. Infine, la vergogna di essere nudi davanti agli americani, mai provata di fronte ai tedeschi. E il sogno, deluso, di un paradiso in Israele dopo l’inferno di Auschwitz. Poi un capitolo nuovo, dopo la lotta alla sopravvivenza: la difficoltà di trovar posto nel mondo. Un mondo non sempre accogliente che non ha voglia di fare i conti col passato e con chi lo testimonia. E sotterranea e onnipresente, baluardo e scudo della memoria: la penna. L’atto del segnare in maniera indelebile che si contrappone alla Shoà, alla cancellazione colpevole, all’annientamento della Storia. Un gesto di salvezza e amore troppo spesso avversato nella vita di Edith, altre incoraggiato e premiato…nella candidatura al premio Strega, ad esempio. Ma che resta lo strumento principe della ribellione e del fatalismo, l’icona esatta della volontà di conservazione e cambiamento. Questa scrittura, invisibile e necessaria tanto pacata nello stile poiché ci catapulta nel fatto senza giri linguistici, tenderà, per ammissione dell’autrice stessa, alla fine, verso l’alto, come se ogni riga fosse uno scalino per salire, e rivolgendosi direttamente a Dio, nella lettera finale, gli chiederà, consapevole che non c’è risposta, come l’uomo abbia potuto sostituirsi a Lui, nell’assoluto, assordante silenzio.
Il pane perduto, Edith Bruck.
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Mi chiamo Irene e sono il direttore di questo magazine on line, fondato con l’Associazione Culturale “Le Ciliegie”. Nel lontano 2003 mi sono laureata in Filosofia con 110 su 110 e lode, tesi in Bioetica sull’esistenzialismo francese, e proprio come Jean Paul Sartre, mio filosofo del cuore, ho idea che “terminerò la mia vita esattamente come l’ho iniziata: tra i libri”. Sono una giornalista culturale e una docente di Filosofia e Storia: il giornalismo è la mia scusa per scrivere, l’insegnamento la mia palestra. Ma la verità, dietro tutte queste maschere di carne, è che sono una scrittrice, e scorre inchiostro nelle mie vene.