Paola Arcidiacono dopo aver vissuto e lavorato in Europa, nord Africa e centro America, nel 2010 si ristabilisce in Italia ed adesso vive a Taormina dove si dedica alla scrittura ed esercita la professione di agente e consulente di viaggio. Autrice del romanzo “La Valigia Rossa”, edizioni “Prova D’autore”.
Accade spesso che il turismo per soddisfare la voglia del viaggiatore, che di un territorio non ama soltanto scoprirne i luoghi ma anche sentirsene parte, ne commercializzi usanze e tradizioni; abitudini o riti che talvolta a quel paese non appartengono più o che, attraverso la stessa indiscriminata commercializzazione, perdono valore ed identità. Si tratta solitamente di esperienze che attingono alla storia, alla cronaca, alle tradizioni popolari o addirittura ad uno stereotipo. Accade ovunque: dai cabaret Parigini agli sky bar di Bangkok, dove ci si immerge fra la folla osservandone la presunta abitudine e compiacendosi di farne parte; dai narcos tour colombiani ai percorsi turistici lungo i sotterranei vietnamiti, per rivivere da spettatore emozioni e tragedie che di quel paese ne hanno fatto la storia e ne hanno caratterizzato il popolo; dagli intrattenimenti a suon di tarantella e limoncello ai sirtaki accompagnati da fiumi di ouzo, per divertirsi secondo supposte attuali dinamiche sociali; dalle cene nel deserto alle passeggiate a dorso di elefante, spesso consapevoli di partecipare ad un’esperienza puramente folcloristica. Ci si traveste e ci si comporta secondo il prototipo locale, partecipando ad esperienze o riti sociali del cliché del luogo. Esperienze cui spesso si prende parte per l’esclusivo piacere di camuffarsi in una realtà inconsueta, di travestirsi in abiti che non ci appartengono ma che ci “vestono” bene, per divertirsi ad interpretare un personaggio diverso, lontano o affine al nostro essere. Accade anche che, a scopi turistici, ad essere vendute siano addirittura esperienze mistiche o meditative che per loro stessa natura dovrebbero essere scevre dall’essere commercializzate. Nella Riviera Maya messicana dove tutto perde velocemente identità a favore della speculazione turistica, ma dove resiste ancora qualche piccola comunità Maya, ci si esibisce con successo in una messa in scena paradossalmente atta a far cadere le maschere. Accompagnati da uno sciamano, necessariamente abbigliato secondo le aspettative del pubblico, riti di purificazione si celebrano a favor di luna e vengono aperti bevendo balché, un misto fermentato di acqua, miele e corteccia di leguminosa, considerato il vino sacro dei Maya, una bevanda leggermente inebriante. Lo sciamano invoca gli elementi della terra: “agua, aire, tierra, fuego” – grida nel buio e nel silenzio. “Agua, Aire, Tierra, Fuego” – ripete sempre più forte. Rituali di preghiere misti a danze invitano gli ospiti ad accogliere in sé la forza degli elementi ed a spogliarsi delle proprie maschere attraverso balli e canti attorno al fuoco. Accompagnati dal suono dei caracoles, giovani Maya si esibiscono con le bolas di fuoco mentre le donne del villaggio continuano a servire balché e a vendere birra. Un vero e proprio spettacolo, allestito per far soldi, che fa leva sulla curiosità o peggio sulla noia e sulle insicurezze altrui. Dopo aver cantato e ballato ci si tuffa tutti, più o meno ubriachi, al buio, nel Cenote. Lo show termina così poi, registi o attori, si chiude il sipario.
Foto di Paola Arcidiacono
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