Si parla di morte, in questo numero di dicembre, perché aleggia nel mondo, come fossimo vittime di una guerra invisibile, e perché l’ultimo mese dell’anno sempre evoca l’idea di fine, che però non maturiamo abbastanza tutti concentrati, e per fortuna, con lo spumante in mano (dovunque e con chiunque ci si trovi, in cinque, sei o otto in tavola) sulla speranza di un inizio bello, e di uno sviluppo degno. Questo accade sempre, a pensarci. L’essere umano, per sua natura, si sofferma poco sui bilanci, vissuti e sentiti come macigni, come tristi conteggi paralizzanti, e spesso fugge alla ricerca di nuovi incipit, belle speranze, fogli bianchi da riempire. Rimuoviamo con facilità, e proseguiamo, anche quando sembrerebbe impossibile, o quantomeno doloroso. Tutto, però, da qualche parte resta, e si trasforma in angoscia, avvertimento, paura, si traduce in emozione complessa, che anche se non la guardi sai che c’è, anche quando stipata in uno scatolone in cantina. Tra le immondizie della nostra società c’è la fine violenta, per restare sul concetto di morte. Non basta il virus. Accade pure che la violenza domestica, in forza delle chiusure cautelative, abbia ritrovato forza. Così vengono inaugurate panchine (l’ultima a Milano), rosse e scomode, a starci seduti. Perché ricordano chi non c’è più per decisione d’altri, e invece poteva esserci e sottrarsi a una volontà conflittuale, fatta tragicamente destino. Non mi piace ricordare la violenza di genere, come fanno le scuole, le sopravvissute all’onda cattiva, i politici (e fanno bene a farlo!). Non mi piace perché ridotta in sottospecie la sentiamo lontana, altra. E non è così. E allora mi piace pensare che non esista violenza di genere, sia un’invenzione didattica, e anche un tantino scaltra per parlare del male, per averne occasione. E in quella forma ordinaria ma sempre sconvolgente denunciarlo tutto e per intero. Non mi piace l’idea di pensare l’uomo contro la donna, e condannarlo quando si va a cacciare per sua scelta nella trappola del male. Preferisco denunciare l’essere umano contro l’essere umano. Non banalizziamo col termine femminicidio un mostro dalle fattezze ben più paurose che uccide bambini, qualche volta, e vicini di casa, oltre che mogli o fidanzate. Fuori dalle etichette: non sono più uomini e donne per me, sono esseri umani che ne schiacciano altri, ed è deprecabile, oltre ogni gioco e ruolo sociale. Il carnefice è la prima vittima di se stesso, e tra tutte le vittime è la peggiore, perché non sa di esserlo. Nel momento in cui erge l’arma si mostra al mondo come il carnefice, e sbaglia. Perché sotto quel mostro visibile c’è una Vittima con la v maiuscola, invisibile, che solo in quella sedia di tribunale, al processo, torna a giocare il suo vero ruolo, perché il ruolo di imputato ci ricorda tanto quello della vittima che era stata senza saperlo. Questo non giustifica il mostro: lo spiega. Il più delle volte era Vittima non incline ad esserlo, ma che lo diventa per una famiglia già viziata dal male, o per le cattive compagnie dell’adolescenza, o per violenze a sua volta subìte. Non ha colpa di questo. Ha invece imperdonabile colpa quando al cospetto di un’altra vittima potenziale, non torturata magari dall’esistenza, ma destrutturata, e pronta ad assumersi compiti sociali gravosi, solleva l’arma e colpisce. Nel farsi carnefice, la Vittima non spezza il suo destino: lo rafforza. E adesso lo vedono tutti come mostro, carnefice, quello contro cui si grida “Ergastolo!” perché è facile vedere il confine tra bene e male, tra l’ingiustamente morta e l’ingiustamente vivo, quando c’è un atto atroce di mezzo che lo segnala in led, ma quello che non vediamo è il crimine peggiore che ha compiuto: il rifiuto del compito umano che è trasformare la sofferenza in germoglio difficile, anziché lasciarla quel vortice che trascina anche gli altri nel proprio dramma. Questo il momento che non si perdona, non all’uomo, al marito, al compagno, ma all’essere umano: quello dell’incapacità di convertire il potenziale distruttivo della sofferenza in energia buona. Così, fuori da ogni retorica, non c’è donna che debba proteggersi da un uomo, ma c’è una potenziale vittima che deve difendersi dalla Vittima. C’è un uomo in pantaloni da scarnificare e riportare a ciò che è: l’ombra del male, che può incarnarsi in tutto e in tutti. Che poi i numeri rivelino è vero. Ci sono differenze fisiologiche, modi, educazioni diverse, diversi dosaggi ormonali, forze biologiche di diversa natura. È vero. Accade che siano più i maschi, e verso le loro compagne, assetati di possesso, privi di cultura e rispetto, è vero, accade. Ma rimarcarlo è un messaggio sociale distorto. La violenza è da rigettare, denunciare, condannare: tutta. E ricorrendo a stereotipi rischiamo di non riconoscerla quando si nasconde e manifesta in maniera nuova. Va condannata in quanto violenza, senza bandiere, partito e genere. In quanto violenza, a qualunque mano e volto appartenga. Ritornare all’universale, dare un’altra lettura dei fatti, per educare le potenziali vittime a una pronta lettura della realtà, a sottrarsi alle strade senza sbocco, e a non nutrire speranze vane, e bloccare le Vittime designate prima che agiscano contro l’umanità, in qualunque modo lo facciano. Riconoscere la violenza fuori dai suoi schemi, nelle sue infinite possibilità, fuori e dentro di noi, prima che si manifesti. Non c’è altro modo per contrastarla: incorrotti dagli schieramenti e insieme.
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Mi chiamo Irene e sono il direttore di questo magazine on line, fondato con l’Associazione Culturale “Le Ciliegie”. Nel lontano 2003 mi sono laureata in Filosofia con 110 su 110 e lode, tesi in Bioetica sull’esistenzialismo francese, e proprio come Jean Paul Sartre, mio filosofo del cuore, ho idea che “terminerò la mia vita esattamente come l’ho iniziata: tra i libri”. Sono una giornalista culturale e una docente di Filosofia e Storia: il giornalismo è la mia scusa per scrivere, l’insegnamento la mia palestra. Ma la verità, dietro tutte queste maschere di carne, è che sono una scrittrice, e scorre inchiostro nelle mie vene.