Si chiama Modesta, ma non lo è. È invece ambiziosa, scomoda, e di molte pretese. Moderna, troppo, per essere una donna nata nel 1900, eppure nella diversità dal suo tempo è credibile, pennellata a tratti forti, come sono forti le emozioni di cui va alla ricerca e quelle che provoca nel lettore. Rapidamente passa dalla misera e violenta esistenza domestica alla tranquillità della vita monastica dove viene accolta dopo un simbolico incendio che le permette una seconda vita (e molte saranno, anche dopo, le sue esistenze terrene) ma anche lì tranquilla non sta, e usa la fiducia degli altri, o peggio, i rapporti umani, come un ascensore sociale. Perché Modesta sale, e dall’alto delle sue graduali vette, vita dopo vita, conquista il rispetto, e trofei di saggezza, ed eredità cospicue perché sa farsi spazio nel mondo, trovarne uno tutto suo, di posto sicuro, e assicurarsi intanto pure quell’angolo privilegiato nel cuore del fedele lettore che macina pagine e pagine per venire a capo del mistero della sua esistenza.
“L’arte della gioia” è il libro che racconta il Novecento, nella sua grandezza e povertà. Lo rende scenario costante di una telenovela colta: la vita di una donna che, in controtendenza rispetto ai tempi, scala le gerarchie sociali. Non è solo un libro, è anche un inno che celebra l’esistenza, la sua forza vitale. Modesta non smette di amare la vita, di sperimentare tutto ciò che le ricorda d’essere viva: i piaceri sensuali, in primis, che in crescendo scopre, e poi riscopre, dall’ amicizia erotica con l’amico Tuzzu alla tenera relazione con Beatrice, passando per l’incontenibile passione verso Carmine, per poi ritrovare, anni dopo, il desiderio verso una donna con la facoltosa Joyce. Eppure questo mare scatenato, protagonista sin dall’inizio degli scenari del Sud in cui è ambientata la vicenda, che racconta di un istinto sfrenato, di un sentire caldo e della passione verso l’esistenza che si ripropone come onda imbizzarrita in più forme (impegno politico, amore per la cultura) è bilanciato da un’ombra scura che attraversa l’intera opera: ha un suo limite e interlocutore, cioè, nella morte che attraversa il secolo, i luoghi, l’esistenza della protagonista. La morte accompagna Modesta, e lei la schiva. Sopra i suoi deserti costruisce, e riparte libera, ogni volta di più, selvaggia, e priva di legami: apparentemente opposto e nemica, le diventa complice, questa falciatrice ingiusta, poiché capace di farla ripartire da zero, verso una nuova esistenza, così come è nella sua natura di eterna fenice insoddisfatta. Dopo l’incendio che devasta la sua prima vita, quella d’origine, è capace di rinascere nuova in un convento, istruirsi ed apprendere molto dai libri, ma soprattutto degli esseri umani. Molte altre volte la incontra in vita, questa morte mai in grado di ucciderla: le porta via Carmine, ad esempio, il suo grande amore, ma le lascia Mattia, il figlio di lui, con cui Modesta inizierà una relazione, trovando il padre talvolta nel figlio, per non piegarsi alla dura legge di un cattivo finale e vincere la morte con un altro tipo di immortalità: l’erotismo. Con la politica fascista, a cui assiste e che avversa, molte cose muoiono, le idee, le speranze, le persone. Anche Carlo, tra i suoi affetti, ma non solo. Significativo che lentamente muoia sotto colpi fascisti, quel medico timido che l’amava, e le consegnava in pegno storie, racconti, consolazioni dai suoi viaggi edificanti: Carlo, nient’altro che un simbolo di esistenza, l’ennesimo, contro la cultura di morte con cui Modesta si confronta. Un’altra forma in cui la Morte appare nel romanzo è attraverso il personaggio di Joyce, psicologa in fuga dal fascismo: si unirà a lei, le sarà compagna, eppure Joyce ha già la morte addosso, che le si trascina al seguito, ha un fratello nazista, seminatore di morte e la ricerca anche lei, nell’inquieta progettazione del suicidio. Modesta reagisce nell’unico modo in cui sa, alla fine: restando fedele alla vita, allontanandosi da quel baratro e rinascendo dalle sue ceneri. Come molte altre volte farà, in un contesto difficile che le impone mille morti e mille rinascite, e con cui mai, la solida protagonista, mutevole eppure granitica, eviterà di fare i conti.
L’Arte della gioia, Goliarda Sapienza.
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Mi chiamo Irene e sono il direttore di questo magazine on line, fondato con l’Associazione Culturale “Le Ciliegie”. Nel lontano 2003 mi sono laureata in Filosofia con 110 su 110 e lode, tesi in Bioetica sull’esistenzialismo francese, e proprio come Jean Paul Sartre, mio filosofo del cuore, ho idea che “terminerò la mia vita esattamente come l’ho iniziata: tra i libri”. Sono una giornalista culturale e una docente di Filosofia e Storia: il giornalismo è la mia scusa per scrivere, l’insegnamento la mia palestra. Ma la verità, dietro tutte queste maschere di carne, è che sono una scrittrice, e scorre inchiostro nelle mie vene.