“Dalla Stanza di Miriam” è una raccolta di poesie che osserva la natura in dettaglio, e poi si adagia e riposa in essa, come uno sguardo che da un interno si sposta verso piccoli incanti, grandi meraviglie, attraverso e nonostante un vetro. Ci si sposta, così, dalla simbolica stanza di Miriam, attraverso “un vetro appannato” che è l’opera d’incipit, sui sentieri segnalati dall’attenzione poetica, verso quel fuori che l’autore ci narra con versi leggeri. È un viaggio: dall’interno all’esterno, in cui il poeta ci invita. Partiamo. Spostarsi è illusorio, quel vetro, per quanto appannato resta, e ci ricorda che lo spostamento è ancora “sogno”, un itinerario di conoscenza di sé di cui la parola poetica è silenziosa guida. Ed ecco si alternano cose e stati d’animo, andando avanti, entrambi raccontati dalla stessa voce, foglie d’autunno, sentieri e viandanti si sovrappongono, nella narrazione, a concetti più astratti come la passione, il canto. Perdiamo l’equilibrio. Dalla terra, forte, e strutturata, sicura, che ci accoglie, e si racconta in quelle tracce in cui il poeta posa la mano, e a cui rende, senza rimpianti, omaggio, all’esplosione della natura, il suo spettacolo nell’alba, nel sole al tramonto, nel cielo stellato, pezzi di vita, questi, meno concreti, più difficili da raccontare, che ci riportano dalla realtà di un elemento fisico a una dimensione morale. Esistono luoghi intermedi che ci introducono dall’uno all’altro, dalla dura materia all’etereo sentire: l’odore del pane, l’alito di vento, ineffabili sensazioni che solleticano la memoria, somigliano a metafore senza esserlo: ci rigenerano nostalgici. Così quasi camminiamo, in questo orizzonte poetico che ci cattura, continuamente e senza quasi accorgercene, da una dimensione costrittiva, materiale esatta, già vissuta ed evocata nella stanza, da cui tutto parte, a una libertà immateriale, pura, e interiore a cui la poesia, incurante dei nostri limiti, ci conduce. Tra questi due estremi si sposta, in continua oscillazione, come un pendolo, la penna del poeta Neri, che da dentro osserva, e all’interno riporta, ciò che di pregnante e salvifico la natura offre; e allo stesso modo, seguendola, ci spostiamo noi, recuperando idee dagli oggetti, stati d’animo dalle immagini: sostegno da un campanile, l’infanzia dal vento, sacro timore dalla “ghiacciata muraglia” della neve. Tutto questo recuperiamo: suggestione e stimoli da tenui tratteggi di penna in delicata rima, che a volte si bacia senza ostentazione, altre si sfiora, altre no, e sempre indica inedite direzioni in cui lo sguardo dell’uomo comune, sotto la guida agile della Poesia, può esercitarsi, vivendo, a sentire.
Mi chiamo Irene e sono il direttore di questo magazine on line, fondato con l’Associazione Culturale “Le Ciliegie”. Nel lontano 2003 mi sono laureata in Filosofia con 110 su 110 e lode, tesi in Bioetica sull’esistenzialismo francese, e proprio come Jean Paul Sartre, mio filosofo del cuore, ho idea che “terminerò la mia vita esattamente come l’ho iniziata: tra i libri”. Sono una giornalista culturale e una docente di Filosofia e Storia: il giornalismo è la mia scusa per scrivere, l’insegnamento la mia palestra. Ma la verità, dietro tutte queste maschere di carne, è che sono una scrittrice, e scorre inchiostro nelle mie vene.