L’Italia è in emergenza perché dalla Cina viaggia alla nostra velocità (che ormai viaggiamo veloci) anche lui: un virus, il COVID 19, già isolato e identificato in Oriente e poi da un team dell’Ospedale Spallanzani di Roma, per cui si cercano, ad oggi ancora, un vaccino e una cura. A febbraio era già un vip, con tutte le modalità della glorificazione dei tempi moderni: non si parlava che di lui, non si scherzava che di lui, troneggiava sulla RAI e sui social, e da qualsiasi discorso si iniziasse, e con chiunque, provate a farci caso, c’era poi sempre qualcuno che lo tirasse in ballo. Questo virus oggi pervade le strade, gli organismi ma soprattutto le nostre menti. La paura che suscita gli consente di tener banco, di calcare i palchi internazionali, chiudere scuole, università, blindare città e persino di far schizzare alle stelle i prezzi dei noti disinfettanti al supermercato, complice lo sciacallaggio che sempre accompagna socialmente la disperazione. Potere della paura, che tiene in pugno l’umanità, da sempre. La paura! Forza che muove tutto, ma principalmente il marcio dentro l’uomo, che lo irrigidisce in comportamenti irrazionali dettati dalla troppa prudenza indistinguibile dalla vigliaccheria. L’emergenza è reale, ma la psicosi l’ha preceduta, era già scattata, in anticipo sui fatti, e trovava un ottimo appiglio in dati e statistiche, recitate dai tg che si occupavano già dalla fine di febbraio ormai quasi esclusivamente di questo. Del resto la follia sarà irrazionale, ma mica è stupida: trova sempre un terreno su cui costruire i suoi edifici sproporzionati. Fino a ieri credevamo politica ed economia le priorità. Da febbraio no, che stupidi illusi eravamo prima! Restano corollari del virus, polveroni che il suo calcio nel vuoto emana, conseguenze che si porta dietro. E così le gite d’istruzione sono sospese, le città somigliano vagamente a quei castelli medievali con uomini armati e forze dell’ordine al posto dei ponti levatoi e delle mura fortificate: non si entra e non si esce. Siamo in Stato di guerra: l’umanità intera contro un micro organismo. Abbiamo costruito universi, edifici, grattacieli, lui li sta tirando giù con un soffio, attraverso le nostre gambe, i nostri punti deboli: gli abbracci, le fragilità. Inconsapevolmente complici. La globalizzazione culturale, marchio dei tempi, è d’ostacolo alla sicurezza. Così si viaggia a rovescio, come fanno le dittature ai tempi della democrazia: lo sappiamo, sono rimedi d’emergenza. Eppure ci danno fastidio nel loro tribale anacronismo. E il nostro fastidio è il vantaggio del nemico.
Poi scatta marzo, e l’essere blindati in casa propria trova un senso: la psicosi non era follia vuota, ma un ragionamento di pancia che conosce le sue scorciatoie emotive verso la verità. Alcune anime vagano ancora per le città fantasma: non li vediamo più come spiriti liberi ma come la parte disfunzionale di un progetto strategico che ha il suo esercito nel corpo sociale: contrastare il virus con la ritirata. Smettere le nostre regole, quelle abitudini e prassi in cui si insinua e prolifera. Ritroviamo la famiglia nella politica che ci protegge, e così troviamo la forza di rinunciare alla nostra, in quarantena, e ci accompagna la nostalgia del lontano, fino a ieri vicinissimo. Sullo sfondo l’inno nazionale, perché un unico destino ci unisce, dalle Alpi all’Etna, e una stessa strategia politica ci ricorda, viva Dio, di essere un unico popolo.
Si riscoprono le buone condotte igieniche (lavarsi spesso le mani, non tossire in faccia agli estranei) che forse avevamo dimenticato? E tutto questo grazie a un virus. Perché si sa, quando l’organismo va in tilt, sono sempre i rimedi della nonna i primi a funzionare e a confortarci, dandoci l’illusione del dominio sulla realtà. E perché non dovrebbe andare così anche quando è il corpo sociale a manifestare sintomi di follia? Ci si appella alla razionalità e al buon senso, alla misura, che facilmente si perde quando si viaggia, per forza maggiore, fuori binario.
Dunque sui fatti si ha poco controllo. Finiscono per andare dove pare a loro, fermo restando che c’è sempre una zona della realtà che il raziocinio ha il potere di controllare. Le interpretazioni, che invece potremmo ben gestire, perché vengono dalla mente umana, sono deliranti, così ci portano ben oltre i fatti, verso scenari surreali e aberranti. Questo succede con l’ignoranza. Perché la verità è che ancora questo virus non lo conosciamo. E l’ignoranza scientifica, e fattuale, genera l’ignoranza culturale e comportamentale: il pensiero magico, la superstizione, e anche un vago razzismo. E non c’è altro che la ragione, ancora una volta la ragione, ancora e sempre, la ragione, a tutelarci dai nefasti eccessi, della superficialità che alla lunga danneggia e del terrore, creatore del male. Poi certo alcuni di quegli scenari nefasti, creati dalla fantasia terrorizzata, si sono manifestati sul serio: perché qualche volta l’ignoranza ci azzecca, nei suoi spettacoli mentali tetri, ed è questo il momento peggiore, quando la ragione, sconfitta, scopre che il caos spesso domina, e ha più ragione di lei. E soggioga la realtà per mesi infiniti, o decenni: così paralizza la ragione fino a che uno scienziato non scopre qualcosa, e allora lei ritorna ad avere la meglio.
Una cosa di certo l’abbiamo imparata, che l’Altro è importante. Perché ora che non c’è ci manca. E anche altre, a pensarci: che le piccole cose restano le più grandi, quando vengono a mancare. E che il digitale ha un lato buono: dopo tanta demonizzazione arriva il suo momento, e ci ricorda che non serve a sostituire la presenza fisica quando ci potrebbe essere, ma a surrogarla quando non può esserci. Così il web (e il suo “universo altro”), accorcia le distanze, permette l’impossibile, ci viene in soccorso, messa, video chiamata con gli amici, lezione, seminario di lavoro, e aiuta proprio tutti, anche chi l’aveva a lungo, e con pretesa di ragioni umanistiche, schivato. Dopo un febbraio ansioso e un marzo bloccato, si giunge a un aprile in cui si spera, come da promessa pasquale, comandi la rigenerazione, argomento a cui idealmente dedichiamo questo numero. Perché davvero questo si desidera: risorgere a nuova esistenza (che si ricolleghi magari alla precedente) perché questi tre lunghissimi giorni di morte, durati mesi, siano solo il preludio, e questo è l’augurio di tutti noi della Redazione di Spazi Esclusi, di un’età storica più felice, connotata da una maggiore empatia, solidarietà sociale e, dopo lunga distanza forzata, una più autentica relazione col prossimo.
Mi chiamo Irene e sono il direttore di questo magazine on line, fondato con l’Associazione Culturale “Le Ciliegie”. Nel lontano 2003 mi sono laureata in Filosofia con 110 su 110 e lode, tesi in Bioetica sull’esistenzialismo francese, e proprio come Jean Paul Sartre, mio filosofo del cuore, ho idea che “terminerò la mia vita esattamente come l’ho iniziata: tra i libri”. Sono una giornalista culturale e una docente di Filosofia e Storia: il giornalismo è la mia scusa per scrivere, l’insegnamento la mia palestra. Ma la verità, dietro tutte queste maschere di carne, è che sono una scrittrice, e scorre inchiostro nelle mie vene.