Marta Lock non è solo un’affermata scrittrice dalla voce accogliente e i modi gentili, autrice del fortunato saggio “Ricomincia da te. Vivere le emozioni”, è una personal trainer dell’anima, una sensibilità in atto in grado di maneggiare, nella vita e nell’arte, il delicatissimo universo di cristallo: l’interiorità umana. Ammiccano dalle sue pagine aforismi liberatori, incastonati in uno stile innovativo che molto spesso utilizza la domanda per comporre una singolare maieutica socratica in grado di frammentare la realtà in produttivi punti di osservazione.
Sono una mente libera– afferma- io per prima non accetto imposizioni o tracce definite dagli altri ecco perché, in modo spontaneo, ho creato uno stile in cui il lettore potesse sentirsi accolto, secondo la sua esperienza, che è sempre qualcosa di individuale. Mai avrei potuto indicare una strada da seguire. La domanda presenta una sfaccettatura della realtà, anch’essa caleidoscopica e mai assoluta. Questo ci ha insegnato Eraclito, filosofo del divenire, e più di recente Einstein con la relatività analizzata nelle Scienze e alla base del concetto filosofico della mente quantica.
Ogni cosa, dentro e fuori di noi, è dunque soggetta al cambiamento?
La vita porta, nel bene o nel male, in modo dolce o brusco, al cambiamento. Siamo esseri in continua trasformazione eppure molto spesso ci ostiniamo all’immobilismo, che è una condizione di paura, e a un’innaturale assenza di fiducia verso la nostra forza interiore e verso la vita stessa, che ci chiede di evolvere emotivamente apprendendo gli insegnamenti del passato. Se però restiamo ciechi e deponiamo in una scatola della memoria le nostre ferite senza cogliere l’opportunità di analizzare gli eventi vissuti e comprendere il loro messaggio restiamo bloccati e vincolati al tempo trascorso.
Da cosa dipende questa cecità e in che modo possiamo superarla?
È la paura che non ci consente di osservare le nostre emozioni. Nasce a volte da una pressione della società che ci preferisce incastrati in un rassicurante contesto di generalizzazione, piuttosto che inseriti nel coraggioso percorso dell’individualità, altre volte deriva da freni inibitori che non ci consentono di affrontare i dolori, le chiusure, le delusioni del passato mentre in quanto esseri pensanti abbiamo la grande opportunità di guardare in faccia gli stati d’animo, esaminando in ogni evento vissuto soprattutto le nostre responsabilità. Molto spesso le maschere che indossiamo ci rendono invisibili agli altri, ma soprattutto a noi stessi. Quando poi l’esigenza del cambiamento diventa più forte della nostra cecità, l’Universo ci mette di fronte alla verità, ci mostra con forte impatto ciò che non volevamo vedere.
Come relazionarsi dunque al passato, soprattutto se irrisolto o doloroso, senza rischiare di restarne imprigionati?
Dobbiamo conoscerlo, guardarlo, cercando di capire il messaggio che ha voluto trasmetterci, e poi andare avanti, perché non possiamo di certo cambiarlo, ma cambiare noi stessi è invece possibile attraverso questa riflessione. L’atteggiamento fa la differenza, vittimizzarsi è una trappola comoda che bisogna evitare: se qualcosa è accaduta vuol dire che era giusto succedesse, e non è vero che -succede tutto a me! – come spesso esclamiamo, perché le cose succedono continuamente a chiunque. Durante la fase di Limbo, condizione di chi ha superato un passato e sta ancora attendendo un futuro, è necessario trovare un equilibrio in cui non si ha bisogno di altro, altrimenti finiremmo per scegliere poi qualcosa o qualcuno per soddisfare un bisogno interiore: non sarebbe una vera scelta libera ma solo la risposta a una nostra esigenza.
Affronti spesso nel tuo libro la tematica del Limbo che definisci una fase di caos in cui ci si sente ancora in bilico tra ciò che non siamo più e ciò che vorremmo essere. È in questa condizione che spesso occorre fare i conti con la perdita.
Non si tratta di una fase negativa, bisogna affrontarlo con la consapevolezza che ci permetterà di crescere, e nella fase successiva in cui giungerà a noi ciò che stavamo aspettando, saremo allora in grado di riconoscerlo. La perdita viene spesso vista come un fallimento, in realtà è un’esperienza, e questo ci apparirebbe chiaro se solo riuscissimo ad infrangere il mito del per sempre.
Non ha dunque senso parlare di assoluto, di eterno, il tempo umano si declina al plurale: non c’è un tempo, ci sono “i tempi” e ogni cosa ha il proprio.
Questa è un’argomentazione che mi si addice, svincoliamoci dalla favola del per sempre, irrealizzabile in natura, ogni cosa ha un inizio e una fine. Avere un tempo limitato da condividere, ad esempio con una persona in amicizia o in amore, non è qualcosa di negativo, bisogna cogliere la bellezza di quanto si è ricevuto, dello scambio, non essendo l’evoluzione degli altri allineata alla nostra. Viaggiare molto, vivere un percorso dinamico mi ha aiutato a comprendere la verità del passaggio delle persone nella nostra esistenza.
Hai poi trasmesso questa intuizione attraverso la tua rubrica “L’attimo fuggente” che hai creato nel 2011 per affrontare l’argomento dei sentimenti, delle relazioni nell’epoca contemporanea.
Sì, il titolo non si riferisce all’afferrare il momento perché breve è la vita terrena, come si potrebbe pensare, ma ricorda la centralità dell’attimo emotivo che va vissuto fino in fondo, ma che spesso nel fare quotidiano, distratti dalla tecnologia, dalla virtualità o dalla fretta, ci lasciamo sfuggire. Sono cose semplici ma in grado di metterci in connessione con l’universo, il sorriso di un passante che incroci per strada, ad esempio.
Incrociamo anche episodi di serendipità, di cui parli nel libro, che ci mostrano altre vie. Che ruolo ha giocato nella tua esistenza, nel condurti dove ora sei?
Ho seguito il mio impulso interiore e da lì ho incontrato percorsi di serendipità che poi sono venuti verso la mia energia. Nei miei viaggi ho riscoperto il mondo, frantumato certezze che ho dovuto ricostruire; per strane motivazioni ho avuto l’opportunità di rientrare, da lì una mappa di spostamenti da Rimini a Milano, legati alla serendipità, maturando così la mia esperienza di vita prima di giungere alla scrittura. A partire dalla scrittura, a cui sono arrivata nel 2010, una serie di concatenazioni casuali mi ha indicato una verità: era quello il mio canale energetico giusto. Nella fase precedente ho vissuto una maturazione graduale in cui intelligenza emotiva e razionale crescevano parallelamente.
In conclusione, e ritornando alla relazione con l’invisibile, tema della nostra rubrica. Cosa manca alla nostra società, e cosa la fonda, non visto? Manca forse oggi la capacità empatica di esaminare le cose dal punto di vista degli altri. Questo eviterebbe ogni conflitto, perché molto spesso l’altro non agisce contro di noi, ma reagisce al proprio vissuto. Altra grande risorsa spesso nascosta dalle persone è l’emotività che andrebbe riscoperta, perché solo accettandola si riesce a proteggerla. Ciò che passa invece inosservata, oggi, è la bellezza dell’evoluzione; viviamo in un tempo accelerato, ma anche in passato il cambiamento, legge della realtà, è stato avvertito come una minaccia. Il futuro non deve far paura: promette crescita e opportunità.
Mi chiamo Irene e sono il direttore di questo magazine on line, fondato con l’Associazione Culturale “Le Ciliegie”. Nel lontano 2003 mi sono laureata in Filosofia con 110 su 110 e lode, tesi in Bioetica sull’esistenzialismo francese, e proprio come Jean Paul Sartre, mio filosofo del cuore, ho idea che “terminerò la mia vita esattamente come l’ho iniziata: tra i libri”. Sono una giornalista culturale e una docente di Filosofia e Storia: il giornalismo è la mia scusa per scrivere, l’insegnamento la mia palestra. Ma la verità, dietro tutte queste maschere di carne, è che sono una scrittrice, e scorre inchiostro nelle mie vene.