Affidarsi, ovvero mettersi con fiducia sotto la protezione, la benevolenza di qualcuno, abbandonarsi. Con questo pensiero che mi frulla in testa, sto seduta dentro una sala conferenze più o meno gremita e mi accosto per la prima volta al mondo dell’affido familiare. Ho scelto di partecipare per capire meglio cosa significhi prendere in affidamento un bambino e accoglierlo in casa da parte di una famiglia, una coppia o un single per un periodo di tempo. L’affidamento infatti, si sa, ha prevalentemente carattere temporaneo. Quando un minore non si trovi nelle condizioni di essere accudito dalla propria famiglia di origine, un altro nucleo familiare può “accompagnarlo” quotidianamente per un certo periodo di tempo, al termine del quale egli ritorna presso la propria casa o viene adottato da una nuova famiglia. Tutto inizia con una telefonata…e con una buona dose di incoscienza, per lo meno al principio. Il telefono squilla per cambiare in poche ore la vita di un papà o di una mamma e quel giorno segna un nuovo inizio, il primo passo verso un’esperienza di amore puro. Tra un “Chi c’è l’ha fatto fare?” e un “Ce la faremo!”. Cosa spinga a farlo è facilmente comprensibile se si guarda all’affido dalla prospettiva di chi ne beneficia, non da quella di chi lo mette in pratica. Gli adulti sono strumenti, braccia aperte tra le quali i fanciulli possano abbandonarsi e sentirsi figli. Tutt’altro che egoisti sono gli uomini e le donne che vivono consapevolmente il loro ruolo di genitori “a tempo” e mettono a disposizione il proprio affetto donandosi fino a quando è utile, solo per il bene di colui o colei che hanno accolto. Esiste un tempo da vivere, un vuoto da colmare; il fatto che non durerà per sempre perde di importanza rispetto allo straordinario valore del gesto.

Sono rimasta ad ascoltare attentamente e torno a casa con nuovi interrogativi. È presto per dire se mi sentirò mai all’altezza del ruolo, ma ho già percepito che l’essere genitore costituisce una condizione profondamente più articolata di quanto siamo stati tradizionalmente abituati a pensare.